di Lucia Zambelli
L’ormesi studiata fin dall’800 è ora analizzata negli aspetti inibenti o stimolanti in 5000 casi
Il primo fu Ippocrate, quando osservò che l’Elleborus niger, pianta capace di provocare una diarrea simile al colera, poteva, in piccolissime dosi, curare proprio il colera. Senza saperlo, il padre della medicina aveva formulato il primo abbozzo della teoria dell’ormesi, in base alla quale una stessa sostanza può avere effetti benefici a basse dosi, dannosi ad alte dosi. La medicina tradizionale si basa sulla linearità dose-risposta: l’effetto aumenta con l’aumentare della dose. Non sempre è così: molte sostanze – ne sono state individuate oltre 5.000 – hanno un effetto stimolante a basse dosi, inibente a dosi elevate.
La legge dell’ormesi fu enunciata dai due ricercatori Arndt e Schulz alla fine dell’800. Ma il fenomeno fu contrastato aspramente dalla scienza convenzionale. Anche perché uno dei suoi enunciatori, Arndt, era uno psichiatra esperto anche in omeopatia, e un’accettazione della legge dell’ormesi avrebbe significato anche il riconoscimento della validità terapeutica dei medicinali omeopatici.
A riprendere e approfondire la teoria dell’ormesi è stato Edward J. Calabrese, docente di tossicologia all’Università del Massachusetts, che studia il fenomeno da quasi vent’anni, e ne ha dimostrato la validità per circa 5.000 sostanze, che possiedono appunto questo comportamento ambivalente. Calabrese sta conducendo, con numerose pubblicazioni (oltre 300) su riviste autorevoli quali Nature e Scientist, una strenua battaglia perché, attraverso il riconoscimento del fenomeno dell’ormesi, si giunga a una rifondazione delle basi della farmacologia e della tossicologia. Il tossicologo americano ha parecipato, in videoconferenza, al seminario interdisciplinare organizzato a Firenze dalla SIOMI (Società italiana di omeopatia e medicina integrata), dal titolo “Challenging the dose-response dogma”, ovvero la sfida del dogma dose-risposta.
“Per molte sostanze”, spiega Calabrese, “la risposta arriva al suo massimo a bassi dosaggi. E questo fenomeno ha basi scientifiche. Nella banca-dati dell’ormesi ci sono 6.000 studi che dimostrano il comportamento bifasico di molte sostanze: effetto benefico alle dosi più basse, alterazione patologica alle dosi più alte. Il metanolo per la longevità (stimolante a basse dosi, inibente ad alte), l’etanolo sul comportamento sociale dei ratti, l’alcol sul testosterone, l’alluminio sull’attività enzimatica. E questi sono solo pochi esempi su migliaia possibili”.
Secondo Calabrese, la farmacologia e la tossicologia dovrebbero ripensare il loro paradigma alla luce della teoria dell’ormesi: “Il concetto dell’ormesi non è mai entrato nella corrente principale della tossicologia. Invece, potrebbe determinare uno sviluppo della farmacologia verso la ricerca degli effetti farmacologici e terapeutici, non solo delle massime concentrazioni dei farmaci, ma anche del potere terapeutico delle minime concentrazioni”.
Andrea Dei, docente di chimica all’Università di Firenze, riprende la sfida lanciata da Calabrese e la applica al campo dell’omeopatia. “L’ormesi”, chiarisce Dei, “può agire da concetto centrale per la ricerca in omeopatia”. Su questo lavorano alcuni laboratori di biologia dell’Università di Firenze e un gruppo di farmacologi e biologi, come conferma Simonetta Bernardini, presidente SIOMI.