Ricerca scientifica sui medicinali omeopatici –
2. Ipotesi sulle loro modalità d’azione
Anipro-News 1(2): 5-7, 2002

Paolo Bellavite e Anita Conforti

Dipartimento di Scienze Morfologico-Biomediche e di Medicina e Sanità Pubblica, Università di Verona

Le difficoltà di accettazione dell’omeopatia nel campo della medicina ufficiale dipendono non solo dalla scarsità di studi clinici metodologicamente ineccepibili e riprodotti in diversi centri, ma anche dalla presunta “impossibilità” delle sue teorie. Questo punto si va ad aggiungere alla già esaminata problematica sull’efficacia clinica. Anche se le prove cliniche in favore dell’omeopatia fossero schiaccianti, sarebbe molto difficile per un medico moderno accettare tale evidenza se non vi fosse almeno qualche plausibile o ipotetica spiegazione del meccanismo di tali effetti. La ricerca di base, anche detta ricerca fondamentale, ha lo scopo di aumentare le conoscenze sulle basi dell’omeopatia (principio di similitudine e preparazione dei rimedi) e di formulare ipotesi di lavoro sempre più plausibili e sperimentalmente verificate.

L’omeopatia si è fondata sin dall’inizio, sulla sperimentazione, prevalentemente sull’uomo (provings e raccolta di casi clinici), ma ha dedicato poco interesse allo studio dei meccanismi di base che potrebbero spiegare il funzionamento della terapia. Già Hahnemann aveva affermato, nell’Organon, che a lui interessava molto di più sapere che un medicinale funziona piuttosto che sapere come funziona, anche perché egli aveva intuito la difficoltà di dare delle spiegazioni con i mezzi scientifici allora a disposizione. Nel corso della sua bicentenaria storia, vi sono stati comunque dei tentativi di superare questo “handicap”, soprattutto in Germania e negli USA. Un buon testo di riferimento sul movimento scientifico in omeopatia nell’Ottocento è quello di Boyd, recentemente pubblicato in versione italiana [Boyd, 1936]. Successivamente, nei decenni dopo la seconda guerra mondiale si è registrato l’approfondimento dei meccanismi biochimici ed immunologici che spiegherebbero almeno in parte, il fenomeno della similitudine (a prescindere dalle diluizioni). Da questo movimento si è sviluppata prevalentemente l’omotossicologia, oggi detta anche “medicina biologica”. Solo in anni molto più recenti (anni ’90) si è sviluppato anche un tentativo di spiegare il fenomeno della dinamizzazione ricorrendo alla fisica quantistica ed alla teoria dei sistemi dinamici.

Qui di seguito riferiamo di alcuni studi tra i più significativi e quindi forniremo un quadro riassuntivo dei risultati. La bibliografia di tale raccolta di risultati è stata già pubblicata in un dossier a cura dell’ANIPRO nel 1998 ed è disponibile nel sito dell’Osservatorio Medicine Complementari di Verona (http://chimclin.univr.it/omc/omeopatia.html). Altre più recenti rassegne sul tema sono state pubblicate a cura del nostro gruppo [Bellavite, 1998; Bellavite et al., 1999; Bellavite and Signorini, 2002]. Inseriremo comunque qui un aggiornamento bibliografico sulle ricerche più recenti.

Dall’insieme dei dati disponibili, si può affermare che la ricerca di base che interessa il campo omeopatico sta a confermare il fondamento razionale, scientifico e sperimentale del “principio di similitudine”, base dell’omeopatia. In questo campo, si osserva che anche la scienza biomedica moderna propone concetti e dati che si integrano facilmente con le teorie omeopatiche, soprattutto se si considera il campo delle piccole dosi (basse-medie potenze omeopatiche), i concetti proposti dall’immunologia, dalla psicosomatica, dalla teoria della complessità e dalla farmacologia là dove considera gli effetti inversi o paradossali dei farmaci.
La questione delle “alte diluizioni” o “alte potenze” omeopatiche è più controversa e povera di dimostrazioni sperimentali. La difficile riproducibilità dei risultatati può essere dovuta a problemi tecnici come l’instabilità delle soluzioni, la sensibilità dei sistemi utilizzati, i metodi di diluizione e dinamizzazione. Nonostante tali problemi, anche la ricerca di base in campo omeopatico è in attivo sviluppo ed esistono anche lavori di buona qualità, pubblicati su riviste internazionalmente riconosciute, attestanti l’esistenza di fenomeni omeopatici sul piano della ricerca di laboratorio e su animali da esperimento.

Studi su animali e in laboratorio
Le ricerche eseguite su animali, reperite nella letteratura internazionale, sono una quarantina, sono ugualmente significative perché toccano alcuni dei punti fondamentali come quello del principio di similitudine e il problema delle diluizioni/dinamizzazioni.
Esiste anche una attiva ricerca di base in omeopatia, di cui poco normalmente si conosce. Vi sono ormai decine di gruppi nel mondo che hanno iniziato a porsi il problema di dimostrare sperimentalmente la realtà o la falsità di certi principi “sacri” della omeopatia classica, sulla base dei canoni della ricerca biologica moderna. Non si può negare che la maggior parte di quanto si legge, soprattutto a proposito degli effetti di soluzioni ultra-diluite, è ancora in attesa di conferme da parte di gruppi indipendenti.
Quando le scoperte mettono in discussione alcuni capisaldi della farmacologia, o comunque contemplano la necessità di nuove teorie, devono essere corroborate da fondamenti metodologici e riproducibilità superiori al comune standard, anziché inferiori, come purtroppo succede in questo campo. Un problema considerevole è costituito dalla difficile riproducibilità dei risultati eclatanti di alcuni laboratori. Questo problema, che trova la sua ragion d’essere nella pressoché totale ignoranza sul possibile meccanismo d’azione delle soluzioni omeopatiche ultra-diluite, è destinato a restare ancora per molto tempo un crocevia obbligato di chi si cimenta con queste difficili ricerche. Se l’effetto di soluzioni virtualmente prive di molecole del composto attivo esiste, esso è necessariamente di tipo non-molecolare, quindi si esce dalla possibilità di un normale controllo di qualità delle soluzioni impiegate per le sperimentazioni.
Sussiste la necessità, sempre più urgente, che le sperimentazioni vengano estese ed intensificate, soprattutto a livello di centri di ricerca di primo piano, che vengano assegnati fondi ai gruppi interessati e che cessi l’ostracismo a livello universitario per tutto ciò che ha a che fare con la medicina omeopatica. Nel complesso la sperimentazione che si è venuta accumulando negli ultimi anni comincia a fornire utili informazioni che, aggiungendosi a quelle più tradizionali ma più difficilmente controllabili della pratica clinica, consentono di formulare alcune conclusioni:
a. Gli studi sembrano dimostrare l’esistenza di attività biologica di farmaci in medie ed alte diluizioni preparate secondo le metodiche dell’omeopatia.

b. Pare di poter cogliere in molti casi una certa coerenza tra le ipotesi di partenza, basate sull’esperienza ed il ragionamento omeopatico (principio di similitudine, azione contraria di un’alta diluizione rispetto all’effetto tossico della sostanza stessa), ed i risultati ottenuti negli animali, nell’uomo sano e negli esperimenti in vitro. Una certa sostanza farmacologicamente attiva quando testata in soluzioni altamente diluite sembra reagire specificamente con lo stesso sistema biologico con cui reagisce la sostanza non diluita.
c. La reazione all’alta diluizione è spesso opposta a quella osservata a basse diluizioni: un composto può avere effetto protettivo sugli effetti tossici dello stesso o di altri composti; un agente pro-infiammatorio può presentare ad alte diluizioni effetto anti-infiammatorio.
L’effetto del farmaco di tipo omeopatico potrebbe perciò spiegarsi in due modi: il farmaco stimola alcuni meccanismi biologici che sono inibiti o bloccati dai fattori patogenetici esogeni o endogeni, oppure il farmaco inibisce un meccanismo di risposta che è attivato in modo sproporzionato o distorto dall’agente causale della malattia.
Tuttavia, molti lavori su soluzioni altamente diluite suggeriscono che il tipo di informazione e di segnale veicolato da queste soluzioni differisce, almeno per alcuni aspetti, da quelle conosciute dalla biologia e farmacologia classiche. Il fatto che molti esperimenti mostrino che l’effetto aumenta, o rimane stabile, od oscilla tra aumento e diminuzione, durante successive diluizioni farebbe ipotizzare che un’informazione specifica di un composto a dosi omeopatiche possa essere attivata o amplificata dal processo di diluizione ed agitazione. Si tratterebbe quindi di attività biologica in presenza di tracce di molecole o in loro assenza. La natura precisa di questo fenomeno resta ancora ignota, ma è chiaro che la spiegazione vada cercata in un particolare comportamento fisico chimico del solvente (acqua, o acqua con varie percentuali di etanolo) durante il processo di diluizione ed agitazione.
Negli anni più recenti sono stati pubblicati, da noi e da altri, lavori su modelli sperimentali di infiammazione nel ratto [Lussignoli et al., 1999; Bertani et al., 1999; Ruiz-Vega et al., 2000] e nel topo [Mitra et al., 1999; Datta et al., 1999a,b; Sukul et al., 1999; 2000; 2001; Kundu et al., 2000; Heine and Schmolz, 2000]. Ampi studi su modelli di germinazione di vegetali (intossicati da Arsenico e protetti o meno da alte diluizioni /dinamizzazioni dello stesso minerale [Betti et al., 1997; Brizzi et al., 2000]. Sono stati anche pubblicati studi in vitro dimostranti l’effetto di diluizioni omeopatiche sul duodeno isolato [Cristea et al., 1997], su osteoblasti in coltura [Palermo et al., 2000], su neuroni di ratto [Jonas et al., 2001], su leucociti [Chirumbolo et al., 1997; Belon et al., 1999; Fimiani et al., 2000] e persino su attività enzimatiche pure (uricasi, glutatione transferasi e citocromo P450) [Dittmann and Harish, 1996; Dittmann et al., 1998].

Sulla plausibilità del “principio di similitudine”
Negli ultimi anni sono stati pubblicati importanti lavori teorici che dimostrano che il principio “tiene” anche allo scrutinio di un metodo scientifico rigoroso. Il manifestarsi di due opposti effetti (sia stimolatorio sia inibitorio) da parte di una stessa sostanza quando sia usata a dosi differenti o per periodi diversi è stato descritto in vari modelli sperimentali.
Un esempio molto chiaro di questo del meccanismo del pincipio di similitudine viene fornito da tutta quella serie di prove sperimentali mostranti che alte diluizioni di veleno di ape (correntemente utilizzato in omeopatia per le manifestazioni cutanee con edema, eritema e prurito) avrebbero un effetto protettivo e curativo sull’eritema da raggi X nella cavia albina. Il veleno d’ape, che a dosi elevate (puntura dell’insetto) provoca edema ed eritema, può, a determinate diluizioni, guarire un edema e un eritema provocati da un altro agente. È significativo il fatto che tali risultati sono in accordo con studi biologici su cellule isolate, dimostranti che lo stesso veleno, in minime dosi, blocca l’attivazione di basofili in vitro .
A prescindere dal campo strettamente omeopatico, nella letteratura scientifica biomedica sono riportati parecchi casi di effetti duplici con vari composti, a seconda delle diverse dosi impiegate o delle differenti condizioni sperimentali. Per esempio, questi effetti paradossali sono stati riportati utilizzando prostaglandine, beta-proteina amiloide, radicali liberi dell’ossigeno, ossido nitrico, neuropeptidi, citochine, insulina, acetilcolina, trombina, agenti antiinfiammatori non-steroidei.
Il principio di similitudine potrebbe essere rivalutato come una strada di ripensamento delle strategie terapeutiche, secondo le due linee principali, cioè sia somministrando il “simile” inteso come sostanza che aiuta a conoscere i meccanismi patogenetici della malattia (quello che in farmacologia si chiama composto “analogo”), sia somministrando il “simile” inteso come un composto che provoca sintomi simili a quelli della malattia (omeopatia hahnemanniana classica o omeopatia di risonanza elettromagnetica). Abbiamo esposto ampiamente queste idee nella letteratura internazionale [Bellavite et al., 1997a,b] ed esse sono state accettate e proposte anche da altri [Eskinazi, 1999]. Anche senza far riferimento all’omeopatia, la farmacologia convenzionale sta fortemente rivalutando l’idea della “farmacologia paradossale” secondo la quale un medicinale potrebbe avere effetti opposti secondo la dose e secondo il tempo di applicazione (ad esempio effetti stimolatori l’attività cardiaca a breve termine, effetti inibitori a lungo termine) [Bond, 2001].

Sulla plausibilità dell’efficacia di alte diluizioni (potenze omeopatiche)
Le minime dosi spesso impiegate nella farmacopea omeopatica trovano conferma nella letteratura biomedica corrente che riporta effetti di dosi sempre più basse di farmaci o principi attivi naturali, fino a spingersi a limiti vicini alla famosa costante di Avogadro. La sensibilità recettoriale ed elettromagnetica delle cellule e degli animali può essere altissima, tale da rendere possibile l’effetto farmacologico di un medicinale omeopatico diluito anche fino alla D15-D20 (CH7-CH10), là dove si verificasse che nel soggetto malato i sistemi fisiologici, particolarmente quelli perturbati dalla malattia, sono in uno stato di ipersensibilità (questo fenomeno è ben noto e sicuro solo per il campo delle allergie, ma è probabile che si trovino sempre più casi di “priming” recettoriale legato alla patologia). Una rassegna di tali “ultra-low-dose effects”, riportati dalla letteratura ufficiale, si trova nel lavoro di Eskinazi sopra citato.
Detto questo, è ovvio però che nel campo delle cosiddette “alte potenze” si deve abbandonare il classico paradigma ligando-recettore, teoria elaborata in stretta connessione (seppur con interessanti eccezioni) alla legge di azione di massa. Per affrontare, almeno a grandi linee, il problema della plausibilità dell’effetto biologico delle alte potenze è necessario trattare delle caratteristiche fisiche dell’acqua e della materia condensata in generale. È infatti ovvio che, in mancanza di molecole del principio attivo, si debba postulare che l’informazione biologica sia mantenuta e trasmessa dal solvente (acqua ed etanolo). La letteratura disponibile al riguardo è comunque scarsa e non consente di andare oltre ad ipotesi di lavoro. In ogni caso, sulla base di quanto reperibile nelle pubblicazioni del settore è possibile anticipare che informazione biologicamente significativa potrebbe essere effettivamente “incorporata” dal solvente. La fisica moderna consente di suggerire – anche se non di dimostrare inequivocabilmente – che questo concetto-base della problematica dell’omeopatia non sia così inspiegabile come molti forse sono portati a pensare sulla base del senso comune.
L’acqua, la principale costituente dei liquidi biologici e delle cellule, ha una struttura e un “comportamento” dinamici. Essa, nonostante la semplicità della singola molecola, manifesta un comportamento complesso nelle transizioni di fase ed allo stato liquido. I suoi comportamenti e l’interazione tra essa e le sostanze sciolte sono oggetto di studi di chimica e fisica che occupano interi trattati.
Recentemente stanno accumulandosi evidenze a favore della partecipazione di molecole d’acqua nel trasferimento di protoni in varie reazioni biochimiche, fra cui, tra l’altro, i fotorecettori e vari enzimi. Inoltre, grazie alle risonanze inter-molecolari, l’acqua è in grado di trasferire energia fotonica a lunga distanza con grande efficienza e velocità (virtualmente senza dissipazione).
La ricerca in questo campo è attiva e vi sono molti dati che suggeriscono che la famosa “memoria dell’acqua” non è un concetto assurdo come molti avevano voluto far credere ma piuttosto un fenomeno reale, anche se per molti versanti ancora da comprendere e da accettare definitivamente nell’ambito scientifico, a causa delle difficoltà nella riproducibilità dei dati in diversi laboratori. Non esiste ancora accordo sulla reale efficacia dei farmaci diluiti in modo da superare il numero di Avogadro, né esiste ancora alcuna spiegazione certa di questo fenomeno, che pure molti esperimenti su cellule e animali paiono aver evidenziato. Chiaramente, l’ostacolo più grosso di tutto questo campo di ricerca è probabilmente la scarsa riproducibilità dei risultati in diversi laboratori e spesso anche nello stesso laboratorio in tempi successivi. Evidentemente si tratta di un fenomeno che, ammesso sia reale in natura, è molto difficile da tenere sotto controllo sul piano sperimentale.
Molti autori hanno formulato ipotesi sulla natura fisica dei fenomeni omeopatici legati alle alte diluizioni. In estrema sintesi, un farmaco altamente diluito, ma veicolante informazioni sotto forma di particolari strutture chimico-fisiche del solvente, potrebbe essere visto come una piccola quantità di materia contenente elementi oscillanti in fase, capaci di trasmettere con un processo di risonanza tali frequenze oscillatorie ai liquidi biologici (a loro volta fatti per la maggior parte di acqua), ma anche a strutture “metastabili”, complesse, soggette a comportamenti non lineari, capaci a loro volta di oscillare (macromolecole, alfa-eliche, membrane, strutture filamentose, recettori). Vi sarebbe quindi una possibilità di accoppiamento tra frequenze del farmaco ed oscillatori presenti nell’organismo vivente perturbato dalla malattia.
Si può ragionevolmente sostenere che l’effetto biologico di soluzioni altamente diluite di farmaci non sia così assurdo come forse il senso comune potrebbe far ritenere e che quindi in questo importante settore si aprono molti spazi per la ricerca alla ricerca biomedica avanzata nel prossimo futuro. L’insieme delle evidenze cliniche, che sono certamente più a favore di una realtà dei fenomeni omeopatici che di un generico “effetto placebo”, e delle ricerche sperimentali, che stanno progressivamente fornendo spiegazioni ai fenomeni apparentemente paradossali della similitudine e delle alte diluizioni, indicano che l’omeopatia sta progressivamente perdendo la caratteristica di una medicina alternativa per diventare un settore che – pur presentando certamente molte problematiche ancora aperte – tende a consolidare le proprie basi scientifiche per rispondere alle domande di spiegazione e di documentazione della moderna medicina.

Bibliografia citata

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